Provincialismo intellettuale

intellettuali50In che modo il provincialismo blocca o rallenta la crescita culturale?

Credo che per rispondere a questa domanda si debba partire dalle origini e dunque tornare agli albori dell’antica Roma per la quale, inizialmente era denominata provincia ogni luogo sotto la sua giurisdizione ma altro da Roma. In seguito, divenne il mezzo per definire, circoscrivere e governare i nuovi territori conquistati, dalla Sicilia alla Gallia, dalla Germania all’Africa.

I provinciali erano dunque coloro che vivevano lontano da Roma, in centri periferici minori in cui il rinnovamento delle forme e dei modelli artistici e culturali arrivava, per ovvie ragioni, con grande ritardo. Se duemila anni fa questo ritardo era concepibile, così come forse lo è stato fino agli anni cinquanta del secolo scorso, con il supporto della tecnica di oggi non è più accettabile: basta avere un computer o un telefonino che siano on line che le distanze si dissolvono e ogni nuova forma d’arte, pensiero scientifico o culturale sono a un solo un tiro di clic.

E allora perché continua a sopravvivere questa meschinità di pensiero, questo ancoramento alla piccolezza di una visione che non va oltre le quattro case che si conoscono fin da bambini? Sostanzialmente per due motivi: la paura del cambiamento che potrebbe minare le certezze in cui ci si crogiola e la superficialità imperante.

L’aver letto due biografie e tre manuali non ci rende degli esperti di Storia, sapere che il rosso normalmente non si abbina con il rosa non ci fa stilisti, l’aver recitato in parrocchia non ci consacra a stella del cinema e sapere come si costruisce un muretto non è sufficiente per farsi chiamare ingegnere o architetto. A quanto pare però sono in pochissimi a rendersene conto. E accade in campagna come in città, nei centri minori come nelle metropoli che diventano provinciali a loro volta in quanto, spesso, i loro abitanti pensano che la migliore visione del mondo sia quella che non supera i confini del loro quartiere.

Oggi dunque essere provinciali non credo sia più semplicemente una questione di limiti geografici, di ritardo intellettuale e artistico causato dalla lontananza dal centro pulsante di commerci e scambi culturali ma piuttosto dalla mancanza di curiosità e dall’accontentarsi d’informazioni superficiali che vengono accettate e perpetuate come fossero oro colato.

intellettuali1Ho vissuto in molti posti in Italia e soprattutto all’estero e, nella mia esperienza, gli intellettuali italiani, sia in ambito universitario sia artistico e letterario, sono i più autoreferenziali e autocelebrativi che io abbia mai incontrato. È come se la classe culturale si considerasse una casta, un circolo ristretto e chiuso difficilissimo da penetrare i cui membri si compiacciono del solo farne parte senza mai guardare altrove fuorché per critiche che, troppo spesso, basano sui sentito dire e su certezze ampiamente discutibili.

Di solito in questi circoli non vi è uno scambio di vedute, essi non parlano del loro lavoro, delle loro conquiste tecniche, delle loro ricerche ma parlano di sé, esattamente come farebbe il ricco mezzadro di paese che vuole darsi un tono da gran signore senza vedere o senza voler ammettere nemmeno con se stesso che un asino travestito da cavallo resta pur sempre un asino. Non è dunque raro che ai convegni o ad altri eventi cosiddetti culturali il provincialismo, nel senso di superficialità, di ristrettezza di vedute e mancanza d’interesse al dibattito la faccia da padrone.

In paesi come la Germania, l’Inghilterra, gli Stati Uniti o la Svizzera in questi eventi la norma è il confronto, la discussione, la volontà di conoscere un nuovo punto di vista, di considerarlo criticamente cercando di aprirsi nuovi orizzonti, analizzare soluzioni che non si erano considerate prima, trovare nuove possibilità di pensiero. Invece, nei nostri eventi italioti questa non è, purtroppo, la regola ma l’eccezione.

Chi sono dunque i provinciali di oggi? I mediocri.

david_-_the_death_of_socratesGli intellettuali provinciali di oggi sono quelli che non si pongono più domande, che sono convinti che quel poco che hanno imparato e raggiunto sia più che sufficiente per ritenersi superiori agli altri, che hanno solo certezze e che non guardano più alle cose del mondo attraverso il filtro dello stupore. Come diceva San Tommaso d’Aquino, lo stupore è il desiderio di sapere qualche cosa ed è quello che ci scuote dall’abitudine e dall’ovvio, che ci fa pensare fuori dagli schemi, che genera domande, pone problemi e, soprattutto, cerca nuove soluzioni.

A mio parere, adagiarsi nel calduccio delle proprie certezze e snobbare le visioni altrui, atteggiamento tipico di molti fra i cosiddetti intellettuali italiani è il nuovo provincialismo, è la vacua fissità da rifuggire, è il modo migliore per rallentare la crescita culturale infilandosi in un circuito chiuso, che gira solo intorno a se stesso, che non può portare da nessuna parte, che non crea novità e non arriva a nessun risultato come fosse un cane che cerca di mordersi la coda.

provincialismo

 

Questo post è stato ispirato dalla domanda di Simone Gambacorta che ha chiesto a me come ad altri autori e intellettuali italiani, fra cui Valerio Varesi e Marilù Oliva, in che modo, secondo loro, il provincialismo rallenta o blocca la crescita culturale.

Parte di questo post è apparso in anteprima sul quotidiano La Città – Teramo in “Piccola Inchiesta sul Provincialismo”.