Elisabetta allo specchio


Prefazione di Elena Frasca

ElisabettaAlloSpecchioÈ trascorso quasi un secolo da quando la lezione della nouvelle histoire ha consentito di innovare la metodologia della ricerca storica attraverso il superamento di limiti ormai vetusti e l’apertura a forme alternative di analisi scientifica. La strada da percorrere per approfondire temi e argomenti e per sciogliere i nodi di problematiche storiche presenta oggi alternative strategiche significative e ricche di fascino.

I contesti, anche dilatati, entro i quali si snodano vicende epocali e si muovono personaggi emblematici, pur remoti nel tempo, continuano a fornire allo storico input analitici e a rappresentare un serbatoio di ricerca il cui fondo sembrerebbe ben lungi dall’essere raschiato.

Elisabetta allo specchio si colloca in maniera palmare all’interno di tale quadro di riferimento. E questo essenzialmente per due motivi.

In primis, la scelta di leggere eventi e circostanze mediante l’approccio sistematico e fondato di testi teatrali coevi rappresenta una chiave di lettura interessante per accostarsi ai secoli XVI e XVII che prescindono dal contesto insulare della vecchia Albione per dilatare i propri confini fin oltre le terre sconosciute e lontane al di là dell’Atlantico.

In secondo luogo, Giada Trebeschi scrive la sua opera facendo uso di quanto il suo passato – unitamente al suo presente – le offre in termini di background culturale. Il testo, infatti, rappresenta l’autrice nella sua poliedricità: rigore dello storico, ingegno della scrittrice, pathos dell’attrice. Tutti questi elementi, sapientemente amalgamati tra le righe del volume, ne rendono la lettura colta e piacevole al contempo, rappresentando una fonte alternativa di comprensione di un periodo storico pregnante, e un trastullo per godere di una fetta corposa di letteratura d’oltremanica che mai conoscerà tramonto.

La motivazione che ha spinto l’autrice a confrontarsi con i secoli Cinque-Seicento la spiega lei stessa in premessa: «mondo moderno rappresenta la nascita di una nuova società basata su regole diverse da quelle tradizionali, che muta e si riorganizza in ogni campo e a tutti i livelli» (p. 2), laddove il termine moderno – come ci insegna Le Goff – si spoglia ben presto del significato di recente per rivestirsi della ben più articolata accezione di nuovo.

I termini cronologici di tale passaggio sono ovviamente più sfumati di quelli imposti da fredde esigenze didattiche, e aprono scenari sui tanti momenti a quo che, comunque, nel libro della Trebeschi, sono rappresentati in maniera puntuale.

Come si è detto, le fonti teatrali sono – in questa sede – il documento dello storico, nella consapevolezza che l’autore della pièce fosse perfettamente conscio di quanto lo strumento in suo possesso rappresentasse un’arma insostituibile per veicolare pensieri e idee attraverso l’utilizzo di parte dei cinque sensi e di come tale strumento potesse raggiungere diversi interlocutori, anche quelli senza lettere e senza conoscenza del latino.

È l’opinione pubblica in nuce.

Semplici spettatori di un grande palcoscenico.

Un palcoscenico dai confini dilatati in cui il termine moderno assume i connotati perfetti dell’accezione di nuovo. L’impatto deflagrante che ebbe sull’uomo europeo la consapevolezza di un nuovo mondo che sfondava i confini fino ad allora conosciuti si riflette, sottolinea l’autrice, in tanti personaggi che animano i dialoghi shakespeariani e marlowiani, rivelando sentimenti e, talvolta, svelando risentimenti. L’attitudine dei conquistatori anglosassoni di fondare le basi del colonialismo si manifesta proprio in quegli anni, grazie all’operato di una gentry imprenditoriale che sollecita un’espansione territoriale marcata più da lineamenti economici che da velleità antropologiche, e certamente favorita dallo scisma dalla Chiesa di Roma che rendeva gli esploratori inglesi liberi dai vincoli papali e dalla necessità di evangelizzazione a tutti i costi secondo la logica della encomienda.

Le parole del Faust di Marlowe (p. 12), poi, rendono chiara l’idea dello shock che provarono gli abitanti della vecchia Europa all’idea che esistesse altro all’infuori di quella immagine del mondo tramandata dalla Bibbia e scolpita nelle menti.

Un mondo, quello europeo, che presentava comunque una serie di criticità che i nostri autori inglesi non mancano di rimarcare attraverso le parole – talvolta sottese, più spesso lapalissiane – dei loro protagonisti.

L’autrice ci conduce nei meandri di dialoghi allusivi che gli autori mettono nella bocca dei loro personaggi chiave, utilizzati come veicoli per puntare l’indice accusatorio verso vizi e malcostume della società coeva.

E così ci si imbatte nella critica caustica ai costumi italiani avanzata dall’aristocratico York, figura del Richard II di Shakespeare, nell’accorato dibattito a proposito della validità della legge salica che l’autore di Stratford-upon-Avon fa pronunciare a sovrano e arcivescovo di Canterbury nell’Henry V, nell’adesione quasi simbiotica tra il Faust di Marlowe e Martin Lutero. E, partendo proprio dai riferimenti a colui che sovvertì le sorti della religione cattolica, il pensiero viene inevitabilmente traghettato verso ben più profonde critiche alla gerarchia ecclesiastica della Chiesa di Roma per amore delle quali gli autori sorvolano su qualche evidente anacronismo, forti proprio dell’esperienza inglese, dove la riforma della Chiesa è più una parlamentary transaction che il frutto di una lacerazione interiore.

E ancora, riferimenti neanche tanto velati a malcontento popolare, rivoluzione dei prezzi, crisi agraria; tutto questo e tanto altro si rivela tra le righe dei capolavori letterari per il teatro che videro la luce nell’Inghilterra a cavallo tra i secoli XVI e XVII, non ultimo il tema della dualità – terrena e divina – del monarca che la nostra autrice ravvisa tra le righe del dramma shakespeariano Richard II, regalandoci pagine ricche di intensità che tradiscono afflato teatrale e disciplina storica. La sacralità sovrana si manifesta in una pleiade di riti e simbolismi, di poteri taumaturgici di blochiana memoria e di connotati incorruttibili ed eterni che solo chi detiene, di diritto, la dignitas regale può vantare. Un retaggio del Medioevo che resisterà a lungo agli strali inferti dall’avanzata inarrestabile e inevitabile del moderno e che, nella volontà del più celebre playwright inglese, viene utilizzato come un simbolico omaggio alla “sua” regina, capace – con la sua grandezza – di caratterizzare un’età semplicemente al riecheggiare del suo nome di battesimo.

Una figura femminile forte che aleggia incontrastata tra le righe delle opere di Shakespeare e che, presumibilmente, concede un pezzo di sé nei tanti personaggi al femminile ai quali il drammaturgo dà vita nei suoi numerosi plays.

Il tema della magia, così attuale in un’Europa segnata dai rigori post tridentini, racchiude in sé retaggi dal sapore antico, una miscela di credenze ancestrali sul tema della fertilità e sulla paura della morte, in un’altalena di fenomeni dal sapore miracolistico che, storicamente, viene sempre pilotata dalla donna. Il sottile fil rouge che differenzia la “maga” dalla “strega” marca il reale abisso tra pratiche considerate lecite, e che si protrarranno ben oltre le soglie della rivoluzione scientifica secentesca, e quelle ritenute illecite e immorali, e per questo passibili di castighi esemplari. Il percorso che, in tal senso, delinea la nostra autrice passa attraverso una figura femminile che niente ha a che vedere con lo stereotipo della strega – vecchia, deforme e con gli occhi cisposi – ma che presenta i tratti caratteriali per i quali poteva essere ritenuta condannabile. Tutto ciò in un territorio dove anche i sovrani – persino il padre di Elisabetta! – non avevano disdegnato di praticare la stregoneria. Ma le donne sono l’anello debole della società e qualsivoglia loro tentativo di sovvertire lo schema socio-culturale benpensante era visto come un elemento di grave destabilizzazione che doveva essere punito. Ecco il perché della contestuale condanna della cortigiana, donna scaltra e dai facili costumi, ben lontana dalla figura accettata e incardinabile nella società di donna silenziosa e pudica.

Eppure, Shakespeare sembra guardare con simpatia e quasi con sottile benevolenza a queste “donne ai margini”, figure che, nella loro volontà di sovvertire l’ordine precostituito, offrono spunti di interesse agli occhi arguti del genio letterario, molto più di quelle donne anonime e vittime deboli e spesso consapevoli di una società che le vuole figlie, mogli, madri, in una successione di ruoli che, comunque, devono rivestire sempre in funzione di un uomo.

Personaggi ai margini della società che, nel palcoscenico, divengono protagonisti assoluti.

Come Shylock, l’ebreo, e Otello, il moro, sullo sfondo della Venezia delle calli e dell’Interdetto. Chiavi di lettura per comprendere le sfaccettature complesse di un’età piena di fulgori e di ombre, in un gioco degli specchi che Giada Trebeschi, miscelando sapientemente gli ingredienti, ha raccolto in un volume piacevole da leggere e intriso di tante suggestioni di ricerca.


Elena Frasca

GiadaElena

Ricercatore confermato di Storia moderna presso l’Università di Catania.
Si occupa di storia della medicina, storia delle istituzioni, con attenzione ai sodalizi culturali e scientifici o di tipo laico-assistenziale e di legislazione penale borbonica.