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La Dama Rossa - Un libro di Giada Trebeschi

La Dama Rossa

Giada Trebeschi

30 novembre 1938
Poggio Catino (Rieti), albergo Da Rosa, ore 18.00

Le ombre della sera avvolsero la stanza come se all’improvviso la finestra fosse stata oscurata da una pesante cortina nera. Letizia lasciò cadere i fogli sul letto; la lettura di quelle carte l’aveva stregata. Non si era accorta del passare del tempo e solo adesso sentiva di avere freddo, il corpo scosso da un leggero fremito. Andò a prendere lo scialle abbandonato sulla poltrona e se lo avvolse sulle spalle. Si accostò alla finestra, strofinandosi le mani gelide. Il cielo era livido, attraversato da nuvole violacee. “Si prepara la pioggia” pensò distrattamente.
Passi pesanti calpestavano la ghiaia del cortile. Diede un’occhiata verso l’ingresso della locanda dove abitava ormai da alcune settimane, cioè da quando era stata incaricata di seguire i lavori di ristrutturazione di palazzo Biraghi, a Poggio Catino.

Palazzo Olgiati a Poggio Catino
La rocca di Poggio Catino – Il Palazzo Olgiati

Alcuni uomini in divisa stavano entrando nell’albergo. Non le piacevano i soldati. Tirò bruscamente le tende e si avviò verso il bagno. Presto sarebbe stata ora di scendere per la cena. Qualcuno bussò alla porta. Ebbe paura e d’istinto nascose le carte che stava studiando sotto la biancheria nell’armadio, si guardò velocemente allo specchio ravviandosi i capelli scuri acconciati alla moda e, armandosi di un sorriso innocente, andò ad aprire.
«Buonasera, dottoressa Cantarini, sono il capitano Giulio de’ Risis.»
Un militare, piuttosto attraente dovette ammettere, le stava tendendo la mano.
«Il console Morelli della Milizia fascista vorrebbe farle qualche domanda. Potrebbe seguirmi nel salotto? Lì staremo tranquilli.»
Letizia si strinse nel suo scialle di lana e, senza parlare, scese al piano inferiore. In fondo alle scale incrociò la padrona dell’albergo, la signora Rosa, che le parve piuttosto nervosa. Ma forse si trattava solo della sua immaginazione. Nel salotto li stavano aspettando due civili molto ben vestiti e altrettanti militari che, al loro ingresso, si alzarono di scatto posizionandosi ai lati della porta. Il gesto la mise in allarme. Uno degli uomini in borghese le andò incontro.
«Finalmente ho il piacere di conoscervi, dottoressa Cantarini, ho sentito molto parlare di voi, ma non immaginavo che foste così giovane.»
Lo sconosciuto, un uomo alto e magro dai capelli brizzolati, aveva usato un tono ostentatamente gentile. Sorrideva affabile, però a Letizia non piacque per niente. Fin da piccola, aveva sempre dimostrato una straordinaria capacità di capire le persone a prima vista, e di rado si era sbagliata. Sembrava dotata di un congegno che, come le vibrisse dei gatti, le permetteva di intuire quello che agli altri sfuggiva.
Ora, in quell’uomo percepiva qualcosa di negativo. Non che il suo aspetto fosse particolarmente ripugnante, ma lo sguardo torbido e sfuggente cozzava con i suoi tentativi di mostrarsi cordiale.
«Mi chiamo Ugo Morelli, console della Milizia. Il nostro capitano l’avete già conosciuto, e questo è il mio assistente, il capo manipolo Luca Giacoboni» disse indicando l’altro civile che stava spegnendo la sigaretta: un uomo sulla cinquantina, piccolo e tarchiato. «Mi dispiace avervi disturbata a quest’ora, ma si tratta di una questione molto importante.»
Letizia, d’istinto, fece un passo verso il capitano il quale, al contrario di Morelli, le aveva subito ispirato fiducia.
«Mi dica, signor Morelli, in cosa posso aiutarla?» chiese lui.
«Capitano, i vostri uomini.»
l militare fece un cenno col capo ai due soldati, che uscirono dalla stanza e chiusero la porta.
«Bene, ora che siamo fra amici possiamo parlare liberamente. Sono settimane che voi state lavorando qui, dottoressa, e mi hanno riferito che pochi giorni fa, insieme al proprietario del palazzo, Vincenzo Biraghi, siete stata testimone di uno straordinario ritrovamento. È vero?» riprese Morelli.
«Sì, abbiamo scoperto una stanza ricavata all’interno della camera padronale. Con ogni probabilità risale alla fine del XV secolo.»

Scheletro Dama Rossa
Lo scheletro de la Dama Rossa – Come potete vederlo oggi al museo criminologico di Roma
«Una stanza segreta dunque…»
«Se la vuole definire così… io direi piuttosto una prigione.»
«Una prigione?»
«L’entrata era stata murata. E all’interno abbiamo trovato uno scheletro incatenato.»
«Un prigioniero punito con una morte atroce… chi mai poteva essere? E cosa doveva aver fatto per subire una tale punizione?»
«Ci sto lavorando.»
Morelli la fissava in maniera inquisitoria e Letizia si sentì rabbrividire.
«D’ora in avanti, mia cara, dovrete tenermi al corrente di ogni vostra scoperta, di ogni più piccolo dettaglio. Nelle alte sfere sono molto interessati ai vostri studi. Mi auguro che sarete, diciamo… collaborativa, sebbene i vostri trascorsi non siano proprio definibili in tal senso, non è vero, mia cara?»
Perché mai qualcuno “nelle alte sfere” era interessato al suo lavoro? E chi era questo Morelli? Quanto le dava fastidio quel “mia cara”! Come si permetteva di chiamarla così? Con quale diritto veniva a dirle di collaborare, proprio lui, fatto della stessa pasta di quella gentaglia che le aveva brutalmente portato via il padre, reo di non essere stato “collaborativo”?
«Mi dispiacerebbe molto se una giovane bella e intelligente come voi dovesse ripetere gli stessi errori del padre» continuò Morelli. «Spero che voi abbiate fatto tesoro di quella terribile esperienza. Gli errori degli altri ci insegnano sempre qualcosa, non siete d’accordo con me, mia cara?»
Letizia non parlava. Fissava Morelli cercando di non far trasparire alcuna emozione. «Da domani mattina, il nostro capitano e i suoi uomini seguiranno il vostro lavoro e ci informeranno di ogni cosa, nel malaugurato caso che voi dimenticaste di farlo. Mi è stato riferito che siete l’unica, per ora, a essere entrata nella stanza. Avete visto qualcos’altro oltre allo scheletro? E, scusatemi, perché dopo non avete lasciato entrare nessuno?»
«Deve sapere, signor Morelli, che il mio lavoro è paragonabile a quello di un investigatore. Se qualcuno dovesse cambiare anche un solo dettaglio della scena del delitto, sarebbe poi molto più difficile scoprire il colpevole. Tutto deve restare così com’è stato trovato, almeno per il momento. Dopo che avrò finito di fare i rilevamenti necessari, lascerò via libera anche al resto della squadra.»
«Qualcuno dice di aver visto dei fogli, e ora pare che non ci siano più…»
«L’apertura è ancora molto piccola e, data la sua ubicazione decentrata rispetto a dove ho ritrovato le carte, dubito che dall’esterno qualcuno abbia potuto vedere qualcos’altro oltre allo scheletro. Comunque, c’erano un paio di ciotole, del materiale da scrittura e tre fogli: due bianchi e uno con un sonetto, ma sono ancora al loro posto. Mi scusi, come mai le interessa tanto?»
«Pura curiosità e amore per la ricerca storica. Continuate il vostro lavoro, senza preoccuparvi di noi, l’importante è che ci teniate informati. Mia cara, è stato un piacere conoscervi. Ci rincontreremo presto. Capitano, vogliamo andare?»
Morelli si diresse verso la porta con passo deciso, mentre il suo assistente sussurrò un buonasera appena percettibile.
«A domani, dottoressa» disse il capitano con un sorriso incantevole prima di seguire gli altri due uomini, «cercherò di non intralciare troppo il suo lavoro.»

Capitano de' Risis
Capitano de’ Risis
Lui, notò Letizia, al contrario di tutti gli altri, si prendeva la libertà di non usare il “voi” fascista.
Rimase immobile fino a quando non sentì i loro passi allontanarsi dall’albergo. Si avvicinò al caminetto e cercò di riscaldarsi. Fissando il crepitio delle fiamme, pensava alle carte che aveva nascosto. Erano una sua scoperta, ed era lei che doveva studiarle. Questa volta i risultati del suo lavoro sarebbero stati pubblicati con il suo nome, non con quello di un altro, come invece era capitato agli inizi della sua carriera di assistente all’università, quando aveva ricevuto l’incarico di scrivere un saggio sui pittori bolognesi Annibale, Ludovico e Agostino Carracci.
Se ci ripensava, tremava di rabbia. Ricordava benissimo l’istante in cui aveva trovato sulla scrivania di Boriello, il suo professore, un libro che gli era stato inviato in omaggio. Si trattava di una raccolta di saggi sui pittori emiliani di fine Cinquecento, fra cui quello firmato da un professore amico di vecchia data di Boriello, un certo Musone: Carracci. Umanità e arte sacra. Il suo lavoro! E nemmeno una nota che quantomeno la citasse. Che meschinità, cadere così in basso per pochi spiccioli e farsi bello con la fatica di un altro! Giurò a se stessa che non avrebbe consegnato a nessuno le carte che aveva trovato a palazzo Biraghi, qualsiasi cosa ne fosse venuta fuori, anche se qualcuno nelle alte sfere sembrava così interessato alle sue ricerche.
Le tornò in mente che, nei giorni successivi al ritrovamento della stanza segreta, qualcosa era accaduto in effetti. Avevano improvvisamente sostituito parte del personale che lavorava con lei senza darle alcuna spiegazione, inoltre non riusciva più a trovare il suo quaderno di appunti. Forse erano solo coincidenze. O forse no. A ogni modo, spinta da un’istintiva prudenza, aveva subito nascosto le carte trovate nella stanza segreta senza farne parola. Sapeva però che qualcuno poteva aver sbirciato dall’apertura notando il materiale per scrivere, e così non aveva toccato né la penna né il calamaio, e aveva lasciato al loro posto due fogli bianchi e quello con il sonetto.
«Signorina, mi scusi, è tutto a posto?» chiese una voce femminile.
«Sì grazie, signora Rosa, tutto bene» rispose Letizia distraendosi dai suoi pensieri.
La padrona dell’albergo, una signora florida con i capelli screziati di grigio raccolti dietro alla nuca, le sorrise e, avvicinandosi al tavolo per prendere il posacenere da svuotare, annunciò che avrebbe servito la cena di lì a dieci minuti. Letizia rimase ancora qualche istante a fissare il fuoco, poi si diresse verso la sala grande. Non vi erano molti ospiti quella sera; del resto, il paese non offriva particolari attrattive a parte il castello e, forse, le passeggiate estive nei boschi. Alla fine di quel grigio novembre gli unici clienti erano Letizia, alcuni degli studiosi che lavoravano con lei e due avventori di passaggio.
Letizia faceva un mestiere strano per una donna, e molti infatti la guardavano con sospetto. Non era un angelo del focolare, anche se non escludeva di poterlo diventare un giorno. Amava molto l’archeologia e la storia dell’arte, tant’è che, dopo una breve esperienza d’insegnamento, aveva cominciato a collaborare con il professor Nicola Argentini, un importante storico dell’arte, incaricato di seguire i lavori di restauro del palazzo nobiliare di Poggio Catino. Letizia si era guadagnata la sua stima a tal punto che, quando questi non aveva più potuto seguire personalmente i lavori a causa dei reumatismi, le aveva affidato il compito di sovrintendere al restauro.
La giovane donna era solita cenare con gli altri due studenti del professor Argentini, entrambi di nome Alessandro: per distinguerli, aveva soprannominato uno “il Magno” e l’altro “il Piccolo”, a causa delle loro caratteristiche fisiche. Il primo era, infatti, una montagna d’uomo, alto quasi due metri, amante del buon vino e della buona cucina, allegro, ironico, specializzato in arte medioevale: lavorare con lui era un piacere. L’altro, invece, era di statura media e di costituzione minuta, cagionevole di salute ma lavoratore infaticabile, specializzato in arte moderna. Letiziane apprezzava il lucido raziocinio, la straordinaria cultura e l’assoluta dedizione.
Si accomodò al tavolo, dove già la attendeva Alessandro il Magno. Il Piccolo, invece, tardava.
«Sai dov’è?» chiese Letizia all’amico.
«No, non ne ho idea. Forse si starà preparando uno dei suoi intrugli contro il raffreddore, il mal di testa, la colite o che so io!»
«Non scherzare con la sua salute, non è da te.»
La signora Rosa portò in tavola una zuppiera e, sussurrando un «torno subito» appena udibile, si allontanò per andare a servire i due nuovi clienti. Letizia non poté fare a meno di osservarli. Non li aveva mai visti prima in albergo e non sembravano di quelle parti. Entrambi sulla cinquantina, mangiavano parlando fitto fra loro. Quello apparentemente più vecchio aveva qualcosa di familiare. Le lenti spesse, il riporto dei capelli a coprire la calvizie, il ventre prominente le ricordavano una persona che non avrebbe mai più voluto incontrare nella sua vita. Disse a se stessa che si trattava soltanto di somiglianza e riportò lo sguardo su Alessandro, che armeggiava con la zuppiera.
Pochi istanti dopo Rosa tornò al loro tavolo e, dalla smorfia stampata sul suo viso, Letizia intuì che la sua curiosità sarebbe stata presto soddisfatta.
«Stasera, zuppa di ceci. Vi piace?» disse ad alta voce la padrona. Poi, avvicinandosi, sussurrò: «Quei due sono in borghese, ma fanno parte della Milizia. Sono qui per voi, fate finta di nulla».
«L’ho preparata come piace a lei, signor Alessandro» riprese alzando nuovamente il tono. «Ecco, gliela servo subito. Vuole un altro po’ di vino rosso? Vado a prenderglielo.»
La donna andò in cucina e, tornando con la bottiglia, lasciò sul tavolo un biglietto. Letizia riconobbe immediatamente la calligrafia del Piccolo. Alessandro sfilò il taccuino degli appunti dalla giacca e lo appoggiò accanto al biglietto che fece scivolare tra le pagine.
«Letizia, guarda, questo è il risultato dei rilevamenti fatti a palazzo: ho provato a schematizzarli» disse Alessandro passandole il taccuino.
Hodie vesperi cum vobis non cenabo” c’era scritto sul biglietto. “Dicite Rosae me non valere: apud me manebo. Magna quercu media nocte. Facite ut nemo vos sequatur.

Orrido di Poggio Catino o Grotta di San Michele
Orrido di Poggio Catino o Grotta di San Michele
Il Piccolo li informava che non sarebbe sceso per cena e li pregava di giustificare con la signora Rosa la sua assenza dovuta a un improvviso malessere. Dava però loro appuntamento alla quercia grossa a mezzanotte, esortandoli ad accertarsi di non essere seguiti.
«Direi che sono risultati piuttosto interessanti, ma dobbiamo lavorarci ancora. Domani approfondiremo» rispose Letizia cercando di dissimulare l’ansia suscitatale dal messaggio.
La signora Rosa si stava avvicinando. Alessandro sorrise e le disse che il suo collega non si sentiva bene e che non avrebbe cenato con loro.
«Certo che quel giovane dovrebbe fare qualcosa, ha sempre qualche malanno.»
«Immaginario, signora, immaginario! Da quando lo conosco, ha avuto tutti i mali dell’enciclopedia medica.»
La donna rise forte, lasciò il cestino del pane e tornò verso la cucina.
I due uomini della Milizia volontaria fascista li stavano osservando. Alessandro e Letizia continuarono a mangiare chiacchierando delle ricerche al castello con un linguaggio talmente tecnico che pochi avrebbero potuto capire di che cosa stessero effettivamente parlando. Ma Letizia era infastidita da quell’individuo che tanto le ricordava una delle persone più sgradevoli che avesse mai conosciuto e che, di nuovo, si era voltato a guardarla.
Quando ebbero finito di cenare, Letizia disse a voce piuttosto alta, in modo tale da farsi sentire da tutti, che quella sera era molto stanca e dunque si sarebbe ritirata in camera sua. Uscendo dalla sala passò accanto al tavolo dei due nuovi ospiti dell’albergo, che le sorrisero e, ridicolmente galanti, le augurarono la buonanotte.
Alessandro rimase al tavolo sorseggiando l’ultimo bicchiere di vino e accendendosi una sigaretta. Avrebbe aspettato un po’ prima di allontanarsi: non doveva destare sospetti, perciò si sarebbe comportato come ogni sera. Pensò che, probabilmente, i due fossero alloggiati nelle stanze in fondo al corridoio, quelle lasciate libere dai suoi colleghi che, per qualche strano motivo, avevano dovuto abbandonare il restauro e tornare in fretta e furia a Roma.
Salì in camera sua e rimase in attesa. Dopo una decina di minuti sentì i loro passi sulle scale, quindi restò in ascolto dietro alla porta fino a quando non sentì i due uomini augurarsi la buonanotte e chiudersi nelle rispettive stanze. Qualche minuto dopo udì bussare alla portafinestra che dava sul balcone comunicante con la stanza accanto: era Letizia. Indossava cappotto, sciarpa e guanti, ed era pronta per andare all’appuntamento. La fece entrare.
«Ho sentito che i due miliziani hanno affittato le stanze in fondo al corridoio. Dovremo fare attenzione a uscire. Sono già andati in bagno?» disse Letizia.
«No, non ancora.»
«Non mi piacciono. Soprattutto quello tarchiato con pochi capelli. Mi ricorda un infame che ho incontrato durante i miei studi universitari.»
«Ma come, lo conosci?»
«Non so, sembra lui ma…»
«Chi è?»
«Un professore. Un professore di storia dell’arte moderna.» Strinse un attimo gli occhi, poi disse: «No, non può essere lui».
«A ogni modo, stai tranquilla, non li incontreremo. Scenderemo dalla finestra.»
«Ma sei impazzito? Come facciamo?»
«Non preoccuparti. I tubi di scolo dell’acqua corrono proprio accanto al balcone e attorno alle giunture c’è un solido appoggio per i piedi e le mani. Ti aiuterò io. In fondo è soltanto un piano.»

 

«Non facevo queste pazzie da quand’ero bambina. Ma hai ragione, non possiamo rischiare di farci vedere. Che ore sono?»

«Le undici e un quarto.»

«Ci metteremo almeno mezz’ora per arrivare alla quercia grossa. Dobbiamo essere fuori entro le undici e mezzo.»
Rimasero in silenzio qualche istante, poi sentirono una porta aprirsi: qualcuno stava andando in bagno. Era il momento buono. Avrebbero dovuto fare attenzione solo a un ospite, nella speranza che quello rimasto in camera avesse la finestra dall’altro lato dell’edificio. Uscirono sul balcone. Nessuna delle finestre era illuminata. Letizia indossava una gonna piuttosto comoda e decise di scendere per prima.
«Sei sicura?» le chiese il Magno.
«Certo. Ero un maschiaccio da ragazzina e non è la prima volta che scappo dal balcone.»

30 novembre 1938
Quercia grossa, ore 23.50

Letizia e Alessandro si allontanarono dal paese prendendo per i campi e arrivarono alla quercia grossa poco prima di mezzanotte. Il Piccolo li stava già aspettando nascosto fra la boscaglia. Tremava per il freddo e i suoi occhi azzurri come il ghiaccio sembravano in quel momento del colore del piombo.
«Siete sicuri che nessuno vi abbia seguiti?»
«Penso di no. Ma che cosa è successo? Hanno saputo?» chiese il Magno.
Letizia non riusciva a capire di che cosa stessero parlando. Seguiti da chi? E perché? E poi sapere che cosa?
«Lei è al corrente?» domandò il Piccolo.
«No. Non le ho detto nulla. Volevo lo facessi tu.»
«Insomma, sapere che cosa?» intervenne Letizia spazientita.
«Letizia, il professor Argentini è amico della mia famiglia da tanti anni e mi ha mandato qui sotto falso nome per nascondermi, ma ora credo di non essere più al sicuro e non voglio mettere in pericolo anche voi due. Il mio vero nome è David Kornblum. Mia madre è italiana, ma mio padre tedesco, e siamo ebrei. Mio padre Isaac è un intellettuale che ha già ricevuto pesanti intimidazioni anche se ora si occupa per lo più di traduzione e linguistica. Io sono sgradito per alcuni libelli politici che ho pubblicato ai tempi dell’università. Inoltre sospettano che sia un cospiratore e ora mi stanno cercando.»Orrido
Letizia aveva le lacrime agli occhi.
«Non piangere, amica mia, vedrai che non mi succederà niente. Troveremo una soluzione» le disse dolcemente Kornblum.«Ci puoi contare» ripeté il Magno. Rimasero qualche minuto in silenzio, poi il Magno prese il suo taccuino e scrisse qualcosa, strappò la pagina e la diede al Piccolo. Letizia li osservava trattenendo il respiro a ogni rumore. Prima con il Manifesto della razza e ora con la recente promulgazione delle leggi razziali diventava inequivocabile quanto il Piccolo fosse in pericolo.
«Questo è l’indirizzo di un mio caro amico a Frosinone; è un prete. Eravamo a scuola insieme, digli che ti mando io e vedrai che saprà come aiutarti. Hai dei soldi?»
«Sì, ho messo da parte qualcosa.»
«Prendi anche questi» disse deciso il Magno allungandogli una busta. «Devi partire subito. È troppo pericoloso restare. Ti manderò le tue cose in qualche modo. Diremo che sei dovuto tornare a Roma improvvisamente perché… perché tuo padre è in fin di vita.»
Si abbracciarono a lungo. Letizia e Alessandro tornarono in albergo in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Il Piccolo, temevano, non l’avrebbero visto mai più.

1° dicembre 1938
Poggio Catino, albergo Da Rosa, ore 6.30

Quando sentì la signora Rosa scendere le scale, seppe che erano le sei e mezzo: la padrona si alzava ogni mattina a quell’ora per preparare la colazione agli ospiti. Anche Letizia avrebbe preso volentieri una tazza di caffè, ma non era il caso di scendere così presto. Non lo faceva mai prima delle otto e adesso non poteva permettersi di destare curiosità o, peggio, sospetto.
Dopo essere rientrata dall’incontro notturno alla quercia grossa non era riuscita a addormentarsi. Ricordava bene quel che avevano fatto a suo padre, temeva per il Piccolo e continuava a ritrovarsi davanti agli occhi la faccia di Morelli. Perché si stavano interessando tanto a un palazzo di provincia e al suo restauro? Di cosa erano alla caccia? E come mai quei militari?
Scese dal letto cercando di non fare rumore e si avvicinò in punta di piedi all’armadio dove aveva nascosto le carte trovate al castello. Dal corridoio non provenivano rumori. Aveva bisogno di un altro nascondiglio, nel caso avessero perquisito la sua stanza, non poteva rischiare. Fu percorsa da un brivido e, sebbene fosse a piedi nudi sul pavimento, non era per il freddo. Ritornò verso il letto, scivolò sotto le coperte e cominciò a leggere.CarteSegrete
Trovò Elsa intra le mie suppellettili codesti fogli et la piuma et lo inchiostro. Confidai in lei et ella poté farmeli avere; sempre fu serva fedele. Spero non ne smorzino il lume. Il mio destino è segnato. Il muro hanno finito. Geppo giammai fu uomo da mutar parere. Giammai egli ebbe pietade e non cognosco cagione per cui ora pietade debba toccare lo animo suo. Tamen, delle azioni mia non pentimmi. Il mio unico desio è ora di restar vivente per il tempo di aver facultà di scrivere quel che devo. Benedetta sia la di me madre che iudicò necessario che io intendessi l’arte dello scrivere. Dir non posso chi mai leggerà codesti scritti, forse mille anni passeranno”.
E invece, pensò Letizia alzando gli occhi dal foglio, ne sono bastati poco meno di cinquecento.
Ma cotali memorie sono lo unico indizio. Futuro lettore, come son le ossa mia? Bianche et ripulite? I vermi sulla mia carcassa cresciuti travagliarono bene? Trovato che mi havrete, vi prego, non seppellitemi subito. Lasciate che le ossa mia possano godersi del vento le carezze; lasciate che il sole le scaldi et la pioggia con le lacrime sua ancora una volta le baci.
No, non sono codeste le insanie di una demente, ma lo ultimo desiderio di una condannata a morte. Non ho candele et presto del giorno la luce mi toglieranno; con grande difficultade finirò il mio raccontare però si convien che lo faccia per consegnar il secreto.
Lo insolito foro rotondo sul muro esterno di codesta prigione per crudeltade fecero cosicché potessi li giorni contare. Se credono d’avermi recato danno s’ingannano. Da quel foro là in alto un poco di sole penetra, adunque ho luce per scrivere. Pane et acqua mi lasciarono acciò che più lenta fosse la morte. Ma il veleno mio è più valido et durevole. Giammai loro sapranno. Ho fogli bastanti per morirvi sopra. La mia speranza nel futuro lettore ho riposto; et codesto mio scritto se da ella fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro la via per risolvere il resto
”.

Qualcuno aveva aperto la porta del bagno sulle scale. L’orologio segnava le sette e un quarto e non si udiva nessun altro rumore. Letizia pensò che avrebbe dovuto condividere quelle carte con il professor Argentini, ma poi decise che non era il caso di farne parola nemmeno con lui.
Mi ricordo il giorno che la di me madre dissemi: «Nobile nascesti ma bastarda. Tamen di qui può venirti fortuna. Di gratia dotata sopra ogni altra sei et se ti necessita la libertà di fare et pensare, ai loro appetiti concediti. I potenti ti lasceranno i libri e le arti, avrai gioielli e danari, molti maneggerai a tuo modo benché giammai sarai loro equali. Il prezzo è però molto caro. La tua beltade sfiorita, non avrai nelle avversitade rimedio. Praeterea, in tal vita, tremenda ruina l’amore cagiona. Considerate le difficultade le quali s’hanno in tal caso, scegli la via che più ti conviene». Grande la difficultade di una scelta cotale, nondimanco di seguir quella strada decisi. Mi ricordo ancor con chiarezza la prima volta che mi’ madre insegnommi un uomo a toccare. Avevo quattordici anni”.
Letizia guardò la sveglia: erano le otto meno un quarto. I fogli che aveva tra le mani erano di difficile lettura, ma così interessanti che aveva perso la cognizione del tempo. Qualcuno bussò alla porta. Nascose le carte sotto le coperte e si avvicinò.
«Chi è?» chiese con tono deciso.
«Sono io, Alessandro. Sto scendendo per la colazione. Ti aspetto giù. Dobbiamo parlare.»
«Dammi solo dieci minuti e arrivo.»
Si preparò in fretta. Nascose le carte nella busta di stoffa che sua nonna le aveva confezionato per portare soldi e gioielli quando viaggiava, e se la legò alla vita. “E brava la nonna” pensò. “L’ho usata solo una volta perché era troppo grande, ma ora mi è tornata molto utile.” Poi indossò un bustino attillato per appiattire quanto più possibile i fogli e la gonna più larga che aveva, un po’ retrò, ma perfetta per il lavoro agli scavi. Una camicia panna e un golfino lungo completavano l’abbigliamento. L’acconciatura ondulata valorizzava l’ovale perfetto del viso, addolcendo la curva del naso leggermente aquilino. Sorrise e lo specchio la ricambiò.
Erano ormai le otto, il caffè nero della signora Rosa la stava aspettando e, più Letizia si avvicinava alla sala, più sentiva il delizioso aroma della torta di mele. Era il suo dolce preferito, e Rosa glielo preparava quando pensava avesse bisogno di essere tirata un po’ su di morale. Quella mattina ci voleva proprio. Sembrava che quella donna energica e dai modi sbrigativi l’avesse accolta nella propria casa come una figlia.
La madre di Letizia era morta di crepacuore pochi mesi dopo aver ricevuto la notizia che il marito, il famoso architetto Ferdinando Cantarini, era stato fucilato per alto tradimento. La sua posizione in Parlamento, e soprattutto le sue amicizie fra gli oppositori del regime, lo avevano portato a conoscenza di sconvolgenti rivelazioni riguardanti l’assassinio Matteotti che lui non si era sentito di tacere. Ma si era confidato con le persone sbagliate. Era stato lui, accusato e ucciso per tradimento, il primo a essere stato tradito.
Letizia a quel tempo aveva appena iniziato l’università e, pur essendo rimasta sola al mondo, si era occupata degli affari e delle proprietà di famiglia, senza per questo abbandonare gli studi. Aveva promesso a suo padre che sarebbe diventata una storic dell’arte e non lo avrebbe deluso. A più di dieci anni di distanza, Letizia era riuscita a mantenere la sua promessa: si trovava a capo della squadra di scavi fra i più importanti in quel momento in Italia e tutti sembravano tenere in gran conto il suo parere. Persino nelle “alte sfere” del governo.
Entrata nella sala, trovò i due nuovi ospiti, oggi in divisa, seduti allo stesso tavolo della sera prima; la salutaron con un cenno del capo. Letizia lanciò uno sguardo furtivo verso quello che le sembrava di conoscere e di nuovo sperò di essersi sbagliata.
L’improvviso profumo dell’acqua di colonia che usava suo padre le offuscò la mente e le fece chiudere gli occhi un istante. Quando li riaprì, fu accolta dal sorriso del capitano de’ Risis.
«Si sente bene, dottoressa Cantarini?»
«Sì, sì, bene, grazie.»
«Sicura?»
«Sì, certo. Credo solo di avere bisogno di un buon caffè. Vuole farmi compagnia?»
Non capiva perché l’avesse detto. Perché mai l’aveva invitato? Sapeva benissimo che Alessandro la stava aspettando per parlarle di qualcosa d’importante che certamente non avrebbe voluto far sapere al capitano. Tutta colpa di quell’acqua di colonia. Perché ora ne era sicura: si trattava proprio della 4711 che usava suo padre, anche se sulla pelle del capitano prendeva un aroma più amaro, così almeno le sembrava, e decisamente maschile.
Alessandro non sembrò contrariato dal fatto che de’ Risis si unisse a loro: in ogni caso, non avrebbe mai parlato di questioni delicate in una sala dove, a pochi metri di distanza, stavano seduti due miliziani fascisti dall’aria poco rassicurante, il capitano e, appena discosti, i due soldati che lo accompagnavano.
LetiziaDamaAvalle«Le presento il mio collega: il dottor Alessandro il Ma… Alessandro Romei.»
«Piacere, capitano. Ma Letizia non mi ha presentato bene. Date le mie dimensioni, gli amici sono soliti chiamarmi “Alessandro il Magno”. E non in onore di qualche personaggio famoso ma perché tutti sanno che, come diciamo noi a Roma, magno, magno…! A proposito, ha già assaggiato la torta di mele della signora Rosa?»
Il ghiaccio era rotto. Il capitano de’ Risis aveva riso alla battuta di Alessandro e ora stava gustando il dolce.
«Desidera un altro latte macchiato, signor capitano?» chiese Rosa avvicinandosi al tavolo per servire a Letizia il caffè nero bollente.
«Sì, grazie, signora. La sua torta è davvero buonissima.»
«È la torta di Letizia. La preparo quando voglio farle tornare
il buonumore» rispose la donna appoggiando affettuosamente una mano sulla spalla della giovane studiosa prima di voltarsi per andare a servire i due soldati.
«Rosa è sempre talmente premurosa con me che a volte mi sento in imbarazzo» disse Letizia dopo aver sorseggiato un po’ di caffè.
«Ma, mi dica, capitano, perché il signor Morelli s’interessa tanto a quello scheletro?»
«Per amore della ricerca, glielo ha detto lui stesso» rispose de’ Risis preso alla sprovvista da quella domanda così diretta.
«Non mi è sembrato il tipo per il quale la cultura significhi qualcosa. A ogni modo, sembra evidente che è qualcuno più in alto di lui a interessarsene. Mi chiedo solo il perché.»
«Ma insomma Letizia, per una volta che “le alte sfere” s’interessano a una scoperta come questa, lasciale fare! Magari ci concederanno qualche finanziamento in più e un buon posto all’università» esclamò Alessandro.
«Forse hai ragione; è che sono turbata dal ritrovamento dello scheletro e dalla morte atroce che hanno riservato a quella persona» disse Letizia comprendendo che le era stata
servita una via di fuga.
«Sapete già se si tratti di un uomo o di una donna?» domandò il capitano posando su Letizia i suoi straordinari occhi cobalto.CarteSegrete2
A Letizia quasi sfuggì di bocca ciò che sapeva riguardo all’identità dello scheletro, ma riuscì, non senza difficoltà, a sostenere lo sguardo del capitano. Si limitò a dire che, sebbene sospettasse trattarsi di una donna, dal momento che tale morte non era generalmente destinata agli uomini, aspettava il medico legale, che sarebbe dovuto arrivare proprio quella mattina, e che avrebbe chiarito il sesso e la causa del decesso. Prima, però, doveva fare ancora qualche foto e rilevamento.
«Pensi che non ha ancora lasciato entrare neanche me» disse Alessandro.
«Ma oggi spero proprio di poterla vedere anch’io la tua scena del delitto. E lei, capitano, non è curioso?»
De’ Risis sorrise. E il suo era un sorriso così dolce che Letizia quasi dimenticò che era lì per sorvegliarla, per spiarla, per renderla più… collaborativa.
«Certo che vedrai la stanza; ma sai bene quanto sono pignola, e prima voglio fare tutti i rilevamenti necessari. Poi, scusa, come pensi di riuscire a passare con il tuo corpo di silfide attraverso quell’apertura?!»
«Guarda un po’ che cosa mi tocca sentire!» sbuffò Alessandro.
«Anche se, a pensarci bene… convengo che forse dovrei prima aspettare che allarghino l’entrata altrimenti rischierei di restare incastrato lì per i prossimi cinquecento anni.»
Mentre finivano di fare colazione, i due miliziani fascisti si alzarono dal tavolo dirigendosi verso di loro.
«Buongiorno, signori» disse quello che sembrava più alto in grado con un pesante accento campano. «Il mio nome è Antonio Musone: io e il mio collega Gennaro Boriello siamo stati inviati dal signor Morelli, in qualità di esperti di storia dell’arte, per seguire i lavori al castello. Immagino voi siate il capitano de’ Risis.»
«Sì, piacere» rispose de’ Risis osservando le mostrine di Musone che indicavano il grado di centurione, corrispondente a quello di capitano nell’esercito regolare.
PortaPoggioCatinoLetizia rimase di sasso. L’uomo che stava parlando era proprio il docente che aveva pubblicato il suo saggio sui Carracci. Ora non aveva più dubbi e, come se non bastasse, mentre i due si avvicinavano l’odore di una colonia da quattro soldi le impregnò sgradevolmente le narici. Erano passati quasi dieci anni da quando Boriello l’aveva tradita. In seguito l’avevano cacciato ed era tornato a Napoli con la coda fra le gambe, e ora lei se lo ritrovava davanti come “aiutante”, addirittura un maresciallo della Milizia volontaria fascista! Dovevano essere impazziti a reintegrarlo in quel modo. Ma in fondo, pensò, quella feccia brutale al governo era della sua stessa pasta.
«Voi dovreste essere la dottoressa Cantarini» continuò
Musone. «E voi siete…?»
«Alessandro Romei, storico dell’arte.»
«Piacere.»
Mentre Alessandro si presentava, il capitano si accorse del disagio della donna: pareva essersi fatta di cera.
«Il mondo è piccolo e i casi della vita sono davvero strani, non trovi anche tu, Letizia? Ti ricordi di me?» chiese Boriello avvicinandosi a lei.
«Purtroppo. La meschinità sembra farsi vischio fra i rami della memoria. E mi chiami “dottoressa Cantarini”, se proprio mi si deve rivolgere.»
Alessandro e il capitano si guardarono stupefatti. Furono pochi i secondi che passarono prima che un affettato Musone interrompesse il silenzio, ma sembrarono ore.
«Sono stato informato degli screzi intercorsi fra voi in passato, però mi auguro che un vecchio, spiacevole incidente non comprometta il rapporto che si verrà a creare lavorando nuovamente insieme.»
«Non mi sembra ci sia rimasto molto da compromettere» ribatté Letizia seccamente.
«Vedete, dottoressa, il punto è che noi siamo stati incaricati di sorvegliare i lavori al castello e non penso che questo vostro atteggiamento si possa definire positivo, dal momento che dovremo passare molto tempo insieme. Vi consiglio di essere, diciamo… più collaborativa» concluse untuoso Musone.
Ancora quella parola! Cosa si aspettavano, che collaborasse proprio con quel verme? Ma di quei tempi e con certa gente non c’era da scherzare. D’improvviso ricordò le carte ben nascoste sotto gli indumenti e avvertì il ginocchio di Alessandro che colpiva delicatamente il suo, come a consigliarle di trattenere la lingua; vide poi il capitano che si agitava nervoso sulla sedia. Stranamente si sentì calma e lucida. Trattenne il fiato per qualche istante e poi si rivolse con gelida cortesia al signor Musone.
«Bene» disse, mentre gli occhi di Alessandro la imploravano
di non mettersi nei guai.
«Credo lei abbia ragione. La mia squadra sarà a sua disposizione, ma la prego di non discutere le mie scelte. Sono ormai molti mesi che sto lavorando a questo progetto e non vorrei rallentare i lavori proprio ora. E penso che questo sia nel vostro interesse. Il capitano de’ Risis, così come ho già detto al signor Morelli, sarà informato di ogni mio movimento e di ogni mia decisione. E adesso, se volete scusarmi, devo salire in camera per prendere alcune cose prima di andare a palazzo Biraghi.»
Letizia si alzò e le parve che la mano del capitano avesse sfiorato la sua. Fu una sensazione piacevole. Non sapeva perché, ma sentiva de’ Risis più vicino di quanto il suo raziocinio fosse disposto a concedere.
«Capitano, mi auguro di non dover ravvisare altri dissapori» sibilò Musone mentre Letizia si allontanava lentamente.
«Aspettate la dottoressa Cantarini e poi accompagnatela al palazzo, ci vedremo lì. Confido in voi. Arrivederci, dottor Romei.»
Musone e Boriello presero i cappotti e i cappelli dall’attaccapanni e uscirono in strada. Alessandro e il capitano, senza dire una parola, li guardarono andarsene.
Fu il capitano a rompere il silenzio.
«Mi scusi, ma lei sa chi è quel signore e perché la dottoressa Cantarini lo ha trattato in quel modo?»
«Non lo so esattamente, ma credo che il problema risalga ai tempi dell’università. Se conosco bene Letizia, però, deve esserci un motivo più che valido per reagire così. Ora, se vuole scusarmi, vado a prendere la mia borsa e a vedere come sta.»
Giunto sulla soglia della camera di Letizia, Alessandro vide l’amica come non l’aveva mai vista. Aveva il viso stravolto e le labbra sottili come una lama, nei suoi occhi, mutati da uno splendido verde a un grigio metallico, poteva leggere un’unica tempestosa emozione: rabbia.
«Letizia, ti prego» disse Alessandro entrando nella stanza.
«Non peggiorare le cose. Avremo già molti problemi a giustificare la scomparsa del Piccolo, non ti ci mettere anche tu.»
«Te lo avevo detto che quel tizio mi ricordava qualcuno! Quando l’ho conosciuto aveva la barba. Ma adesso no… certo che no! Come poteva fare il bravo fascista senza essersi rasato? Però dovrebbe cercare di perdere quell’abominevole pancia, altrimenti non potrà fare sfoggio della propria abilità ginnica!»RoccaPoggioCatino
«Si può sapere chi è e che cosa ti ha fatto?»
«Cosa mi ha fatto? Quell’uomo è una bestia.»
«Per me sei come una sorella, e sai bene che ti proteggerò sempre.»
Letizia sembrava davvero sconvolta, tremava. Di colpo si girò verso il tavolo, aprì la sua borsa da lavoro e cominciò a tirarne fuori le carte con una furia che lasciò Alessandro senza parole.
«Eccola!» gridò a un tratto Letizia tornando verso Alessandro con un foglio dattiloscritto in mano. «Eccola, l’ho trovata. La tengo sempre con me. Leggi e capirai perché non voglio vedere quell’uomo. È stato già abbastanza sgradevole scrivere questa lettera e passare quello che ho passato, ma doverne sopportare ancora la presenza è davvero troppo!»
Alessandro prese il foglio dalle mani di Letizia che, nel frattempo, si era abbandonata su una sedia e si tormentava le labbra. Dopo poco la donna scoppiò in un pianto sommesso e liberatorio. La rabbia ora sgorgava lentamente insieme alle lacrime, mentre Alessandro leggeva. Si trattava di una lettera aperta, datata 1925.

Caro professor Boriello,

voglia gradire questa mia lettera di ringraziamento per quello che ha fatto per me.
Non so ancora che persona diventerò, ma so con certezza
che tipo di persona NON voglio diventare, e la ringrazio per avermelo così paternalisticamente mostrato. In realtà, credo che lei non conosca l’esatto significato del termine “paternalistico”, da lei così spesso adoperato nei miei confronti. È una parola che deriva da pater, padre, e mi auguro che lei non si comporti con sua figlia come ha fatto con me, altrimenti sarebbe un genitore degenere. La ringrazio per avermi messo così paternalisticamente le mani addosso, sebbene mostrassi ripugnanza nei suoi confronti. Le svelo un segreto: NO significa NO.La ringrazio perché, sebbene io sia stata così poco intelligente nell’esimermi dal denunciare le sue molestie agli organi competenti, poiché sarebbe stata la sua parola di luminare contro la mia di povera studentessa, ho inequivocabilmente capito quanto pessima sia la qualità della stoffa di cui lei è fatto.
La ringrazio per avermi fatto capire che cosa significa essere uno schiavo nel XX secolo, in modo da saper riconoscere d’ora in avanti tutti quei patetici lestofanti di cui, purtroppo, è pieno il mondo. Costoro credono come lei di essere autorizzati alla sopraffazione, alla violenza psicologica oltre che fisica, ai soprusi di ogni genere in nome di quella briciola di potere che pensano di avere nelle loro mani. Ma quale potere? Quello forse di antichi baroni che vessano i contadini? Quello degli arroganti che opprimono i più deboli? Quello degli inquisitori che bruciano le streghe sul rogo?
La ringrazio per avermi mostrato la strada di quei compromessi che mortificano la dignità umana, e per avermi ricattato alla fine della ricerca obbligandomi ad accondiscendere alla soddisfazione dei suoi istinti, perché ora so come affrontare situazioni di basso livello come queste e, mi fucilassero pure, non sarò MAI “carina” con persone del suo stampo.
La ringrazio per i suoi preziosi insegnamenti: mi hanno fatto capire che chiunque abbia un cervello funzionante, peggio ancora se produce pensieri individuali, è costretto ad allontanarsi da quei grandi luminari che, come lei, tentano di atrofizzarne per sempre la materia grigia cercando di imprigionarne e involgarirne le virtù intellettuali.
Infine, visto che questa è un’affettuosa lettera di ringraziamento
a un grande maestro, voglio svelarle un altro segreto che ho ricavato da questa esperienza: i pensieri, i sogni e le idee non si possono mettere in gabbia. La nostra mente nasce libera e, qualunque siano le condizioni cui viene sottoposta, può sempre trovare una via di fuga verso la libertà. NON cordiali sono i saluti che le rivolgo.

L.C.

Alessandro abbassò il foglio e fissò Letizia. Non riusciva a crederci. Aveva sentito parlare di quello scandalo, ma non pensava che la donna davanti a lui, l’amica con la quale stava passando il suo tempo inseguendo una storia vecchia di cinquecento anni, fosse proprio colei che aveva avuto il coraggio di rendere pubblica una vicenda che troppo spesso si verificava e che altrettanto spesso restava imprigionata tra le aule universitarie. Quando aveva sentito dire che su tutte le bacheche dell’ateneo di Bologna era stata affissa una lettera aperta a un professore per denunciarne le molestie, aveva pensato che la ragazza della lettera doveva avere l’audacia e il coraggio di un cavaliere solitario. Ora quel cavaliere e quella ragazza erano lì, insieme, seduti sulla sedia davanti a lui e lo guardavano chiedendogli aiuto.
«Letizia, non me lo avevi mai detto…»
«Pensavo lo sapessi. Negli ambienti universitari lo sanno tutti. E poi non mi piace parlarne.»
«Non ti lascerò sola un minuto. E chiederò al capitano…»
S’interruppe. Proprio in quel momento, infatti, vide de’ Risis avvicinarsi alla porta che era rimasta aperta.
«Scusate, ma forse dovremmo andare» disse il capitano rimanendo sulla soglia.
Alessandro gli consegnò il foglio che teneva ancora fra le mani e si avvicinò alla finestra.
«Legga, capitano, questa lettera è stata affissa su tutte le bacheche dell’Università di Bologna. Le avevo detto che doveva esserci una buona ragione.»
Il capitano abbassò gli occhi sul foglio.
«Credo che l’unico modo per affrontare al meglio questa situazione sia di non lasciarla mai sola, dottoressa Cantarini» disse dopo aver scorso velocemente la lettera.
«Mi ha letto nel pensiero, capitano» commentò Alessandro.
«Capisco che lavorare con un personaggio del genere non sarà facile, ma se lei ha avuto il coraggio di scrivere questa lettera riuscirà a trovare la forza per fare buon viso a cattivo gioco. Purtroppo, nella mia posizione non posso fare molto, tranne che cercare di proteggerla.»Copertina-la-dama-rossa
«Il capitano ha ragione, Letizia. Faremo in modo di non lasciarti mai sola, però tu devi tentare di abbozzare quanto più possibile con quella gente. Spero non vorrai rischiare la stessa sorte di tuo padre.»
Letizia era immobile sulla sedia, respirava appena. Molto lentamente voltò la testa verso Alessandro, poi si girò per guardare il capitano. Ora si sentiva svuotata.
«Non darò loro nessuna soddisfazione» disse a un tratto con una voce scura, che pareva venire dal più profondo del suo essere. «Nessuna soddisfazione.»
Si alzò. Raccolse le sue carte e le mise nella borsa da lavoro, poi indossò il cappotto e si diresse verso la porta.
«Andiamo? Credo ci stiano aspettando.»
Il capitano e Alessandro la seguirono giù per le scale. …piu

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